Con le tue parole

con le tue parole (2)

 

Con le tue parole

un progetto di ricerca di Etoile Centro Teatrale Europeo in collaborazione con Melpomene 

 

“Con le tue parole” è un progetto di ricerca di natura artistico/letteraria che ha come obiettivo raccogliere le emozioni e i pensieri delle persone in un momento così complesso e delicato.

La ricerca da noi proposta è collettiva e condivisa. Non serve essere scrittori o aspiranti tali, basta soltanto avere voglia di guardarsi dentro e raccontare un piccolo spaccato di vita.

È un modo per ricordare che non siamo soli nonostante la distanza e che c’è sempre qualcuno con cui condividere i nostri pensieri.

 

Come funziona? Potete inviare i vostri pensieri e riflessioni all’indirizzo e-mail parole@centroetoile.eu , noi di Etoile saremo l’intermediario per la pubblicazione del materiale che ci avete mandato tramite i nostri canali social.

 

Tre semplici consigli

  1. Non esiste un modo giusto o sbagliato di vedere le cose, esiste un tuo modo di farlo. L’obiettivo di questo progetto è di condividere pezzi di quotidianità, su cosa focalizzare la propria attenzione o riflessione è una scelta personale.
  2. Non esiste una forma giusta, ma la tua forma di raccontare. Sei libero di usare la prosa, la poesia, il diario…insomma la forma narrativa che più senti tua. Ti chiediamo soltanto di aggiungere al tuo testo, una breve presentazione su chi sei, cosa fai nella vita, da dove vieni. Crediamo che il valore aggiunto di questa ricerca siano le persone che vi partecipano.
  3. Vinci la paura della pagina bianca, “con le tue parole” nasce come momento di ricerca e condivisione aperto a tutti. Ognuno di noi ha una storia che vale la pena raccontare.

 

Il nostro obiettivo è quello di creare un grande mosaico di pensieri e sensazioni, volete costruirlo insieme a noi?

I testi che inviate devono essere originali e liberi da diritti d’autore, in quanto potrebbero essere materiale di studio, ricerca e produzione teatrale di Etoile Centro Teatrale Europeo e Melpomene.

 

Da Aprile il progetto di ricerca “con le tue parole” si è trasformato in una collaborazione con Melpomene, una compagnia teatrale di Madrid, che è diventata ufficialmente partner della nostra ricerca artistico-letteraria.

CLICCA QUI per prendere visione della versione spagnola del progetto.

 

 

 

CON LE TUE PAROLE

I VOSTRI TESTI

Abbandonarsi

di Francesca Termine

Guardo davanti a me

E vedo solo palazzi, mi giro e sempre palazzi vedo

Non riesco più a vedere un orizzonte

Solo una striscia di cielo alzando gli occhi

Ma è Uno spiraglio, è la mia speranza

Allora mi ci aggrappo e chiudo gli occhi

Abbasso il volume delle voci innocenti

Del suono di quel dolore, quella fatica per aiutare

Solo per un po,

Per qualche momento, ho bisogno di stare con me, con la mia pace… Eh ma non vi dimentico mica eh!

Ecco, ora lo sento quel piacevole sollievo dettato dall’abbandono. 

Quel sollievo che sento quando riesco ad entrare in contatto con me. 

È così rara questa sensazione. Quanto mi sei mancata. 

Siamo così affaccendati a rincorrere il tempo. 

Che fatica essere sempre perfetti, progettare, lavorare, affannarsi per non lasciarsi sfuggire nulla. Affiliarsi le unghie per tirarle fuori se richiesto. E edificare muri, mattoni su mattoni sempre più alti per difenderti da ciò che ti fa male, per non farti più trafiggere…e muri sempre più alti, sempre di più in modo che nessuno ti veda più per quella che realmente sei, non veda più quella parte che vuoi difendere. Che hai bisogno di difendere, per non provare più paura.

Il tempo si è fermato. 

Tu lo hai fermato. Senza avvisarci. 

Tu essere senza volto con la corona in testa. 

Ti hai usurpato il trono con prepotenza ed hai iniziato a disseminare dolore e questa volta senza discriminazione, colpisci senza selezione, ecco sei cattivo ma almeno ci fai sentire tutti uguali. Ed è proprio questo il tuo punto debole.

Si, puoi colpire tutti, ma ad una cosa non puoi arrivare. 

A questo. Lo senti? 

Batte forte. Da qui fioriscono tutte le emozioni, così profumate. 

Che bello sentire. 

È come ritrovarsi tra le braccia di qualcuno che ti vuole bene, a cui vuoi bene. 

Rispondi. Lo senti? No, a questo tu non potrai arrivarci mai. Tu non puoi sentire. Perché non ce l’hai un cuore.

E mi dispiace per te, ma tu perderai, perché è il cuore a vincere sempre e questa volta abbiamo cuori che possono battere all’unisono, noi tutti insieme con i nostri cuori battenti ti sconfiggeremo…si, ti sconfiggeremo!!!!   

© È vietata la riproduzione integrale del testo o di parte di esso, se non all’autore e ad Etoile Centro Teatrale Europeo e Melpomene

 

 

Petali del Covid-19

di Lorenza

Ai tempi dei forzati alla finestra, gli occhi sembrano resuscitati a visioni inaspettate, soprattutto se è primavera: una primavera di sole, di azzurro e di luce che se ne frega del buio degli uomini. 

Le macchie sul tetto in eternit del vicino si alternano a piccoli cuscini di muschio tenero e verde, da fare invidia a quello dei presepi e alla morbidezza del lato fresco del cuscino in estate…

La storia dell’ultimo  trentennio è lì davanti : nei portoni e tapparelle sbiadite degli anni sessanta, nelle ragnatele di antenne più o meno ritte, fra reti di  parallele e perpendicolari al cielo, tra i fili per panni stesi con mollette da bucato in legno, alternate al carnevale di quelle in plastica colorata…

Oltre la rete, nel cortile di fianco, l’erba ha la meglio sulla toppe di palladiana che  circonda la casa popolare di un quartiere popolare, per storie e vite popolari..

Sapevamo un tempo, in questi stessi cortili, disegnare ‘settimane’ sul cemento d’estate animate da voci di infiniti bambini, e da sassi e piastre  sonanti sul pavimento.

Ora, fra queste stesse piccole vie bordate da cancelli tutti uguali, si incontrano corpi e sguardi  azzurro celesti di madri, donne e sorelle dall’Est che spingono carrozzine per quelli delle ultime generazioni: processioni di rughe fra le quali, ogni tanto, scorgi qualcuno da salutare con poche parole,  sempre le stesse, di tutti e per tutti…

A ridosso di questa finestra, oltre la rete e i pali arrugginiti, c’è la carcassa di un’altalena e ciò che resta di un triciclo rosso, segno di qualche bambino ora molto lontano, molto cresciuto, molto diverso…

Aveva due posti quadrati e due cuscini, per un dondolare di coppia all’ombra del rettangolo di tela sopra le teste…Un lampione al suo fianco, grigio e sbilenco, fa pensare a un quadretto di famigliola operaia che, in pochi metri quadrati del cortile, cerca e crea un  ingenuo idillio di vacanze d’estate in cortile, per l’invidia del vicino.

Ma il melo fiorito, proprio  in mezzo a questi resti da discarica, grida oggi al cielo la sua bianca perfezione…

Gomitoli di petali lievi, a metà fra il cemento e l’aria tersa, sfiorano oggi  i pensieri e li rendono buoni..

Non tutta la pianta è viva, solo  due piccoli rami a sinistra del cielo, mentre gli altri, fissi e nudi come scope, li stanno a guardare..

Un vero miracolo: uno scorcio di primavera che si ostina a sbocciare su una reliquia di pianta che vive  inaspettata.

Non è una chioma intatta  di fiori che vivono un giorno, ma solo una fronda  sbagliata e salva, che dona all’aria tutta la magia  inutile del suo un profumo…

Cosa ci darà alla sua prossima primavera?

Il  tempo asciugherà  queste ultime mani fiorite, o queste ossute dita saranno più forti e vive, domani,  oltre la rete?

Ci saranno occhi per raccoglierle in uno sguardo e finestre sul cortile ancora aperte?

Ai tempi dei forzati alla finestra, la vita ha un altro passo, e la  primavera è un fragile incanto da preservare..

Da soli, oggi, la respiriamo, per quando sarà ancora di tutti…

Per quando tornerà a ricordarci che i petali non sono scontati…

© È vietata la riproduzione integrale del testo o di parte di esso, se non all’autore e ad Etoile Centro Teatrale Europeo e Melpomene

 

 

Con le tue parole

di Giulia Galloni 

La quarantena per il corona virus mi ha fatto riflettere; penso che nel tempo siamo peggiorati. Noi non riusciamo a stare in casa sul divano a fare quello che ci va, nel giro di pochi giorni ci sentiamo prigionieri e ci sembra di impazzire. Pensate invece che Anne Frank si è dovuta nascondere per più di due anni in un alloggio segreto, senza poter uscire, fare il minimo rumore o semplicemente guardare fuori dalla finestra. Se lei ha fatto questo per più di due anni, con la paura costante che le SS la trovassero; noi possiamo resistere almeno un mese, nella nostra casa, al sicuro e potendo fare ciò che vogliamo. 

Anche a me sembra di impazzire senza teatro o canto e senza vedere i miei amici; ma ci si adatta. 

Gli amici li posso videochiamare ma teatro senza le mie compagne è triste. 

Il teatro si può fare in tutti i luoghi in qualsiasi momento, da soli o in compagnia, ma se hai un gruppo di teatro già formato e uno spettacolo in corso, il teatro senza di loro non è lo stesso. 

Il corona virus sta spaventando molte persone, ma a me no; non avrà il dominio della mia testa. 

In quarantena si possono provare cose nuove, ad esempio scrivere un libro; io ci sto provando ma resto ancora dell’idea che a nessuno interessano i pensieri di una tredicenne. 

Quando non ero in quarantena avevo le giornate sempre piene, mai un momento libero; ma ora i giorni sono tutti uguali e vorrei tanto riavere quei giorni.  

© È vietata la riproduzione integrale del testo o di parte di esso, se non all’autore e ad Etoile Centro Teatrale Europeo e Melpomene

 

 

Romagna Mia

di Waller Corsi

 

Tu vaglielo a spiegare.

Prova a dirle che non potrà ricevere visite per 1 mese, forse 2, probabilmente 3 mesi. 

La prima cosa che mi ha detto è stata:” Siamo in guerra”. 

Ed io, stupidamente rassicurante:” Ma no Pina, che dici? Noi siamo al caldo, abbiamo da mangiare, non viviamo la miseria che avete vissuto voi!”.

“È anche peggio” mi ha risposto “ Noi sapevamo chi era il nostro nemico. Ora chi dobbiamo combattere? Ma soprattutto se entra nel mio fragile corpo, io non ce la farò”.

Già proprio così, perché tanto se muoiono a chi importa? Ma dai sono vecchi, cardiopatici, diabetici, scompensati…sarebbero morti anche con una banale influenza.

E intanto il computo dei morti sale.

Vabbè ragazzi, i posti in terapia intensiva non vorrete occuparli con dei novantenni?

Chi è nelle strutture e si contagia, lì deve rimanere. Senza anestesista, senza pneumologo , senza parenti.

“Pina ma tu sei forte; hai fatto la mondina, hai zappato ettari di terra, hai allevato 5 figli!!! Guardati hai gli occhi vispi di una ventenne”. Le dico.

“Dio te stradora!” Mi dice sorridendo “se avessi vent’anni non mi scapperesti “.

“Pina, noi non siamo tuoi figli o tuoi nipoti, a volte ci vedi nervosi o stanchi; non sempre riusciamo a sorridervi, ma in questo momento è molto dura, perché sentiamo un peso enorme sui nostri cuori. È il peso della responsabilità, della paura, dell’ansia che preme e a volte non riesci a respirare. Finisce il turno e quasi ti commuovi perché è andato tutto bene “. Le dico abbassando lo sguardo.

“Set sa fom? “ mi dice sorridendo “metti su Romagna mia, che cantiamo. “

E ancora una volta sono loro che mi consolano, che mettono in fila le cose, che danno valore ai piccoli dettagli e che trasformano pensieri cupi in sorrisi e canzoni. Che sanno combattere, ricominciare da zero, reinventarsi. 

La chiamano resilienza. 

Io li chiamo Pina, Norma, Giovanni, Sergio, Lucia, Giorgio, Teresa….

©È vietata la riproduzione integrale del testo o di parte di esso, se non all’autore e ad Etoile Centro Teatrale Europeo e Melpomene

 

 

TIME FOR CHANGE – È tempo di cambiare

di Anastasia Mercadante

 

Quante volte ci siamo riproposti, magari con lo scoccare del nuovo anno, di apportare dei mutamenti positivi alle nostre esistenze, e quante volte, puntualmente, abbiamo disatteso questi buoni propositi?

Bene. L’occasione per cambiare è qui, ora, sotto i nostri nasi.

È arrivata il momento di fare i conti con sé stessi.

È arrivato il tempo di cambiare.

Parliamo meno e ascoltiamo di più.

Non rinunciamo ad una cena con gli amici solo perché abbiamo lavorato troppo.

Abbracciamo calorosamente, lunghi e sinceri abbracci, cuore contro cuore.

Non preoccupiamoci troppo della polvere accumulata negli angoli della nostra casa e della nostra vita, basta un soffio di vento per mandarla via.

Troviamo il tempo per goderci i nostri affetti.

Non sprechiamo nessuna occasione e non accatastiamo sogni in un cassetto dimenticato.

Torniamo a stenderci nei prati, senza preoccuparci di macchiare, inevitabilmente, i jeans d’erba.

Non pretendiamo più di essere invincibili, ci è concesso di gettare la spugna ogni tanto.

Impariamo a condividere le responsabilità: “un po’ a te… un po’ a me”.

Non perdiamoci dietro schermi e finte vite, create a doc per apparire ciò che non siamo.

Ritorniamo ad amare il reale, il concreto, l’attimo che dura in eterno se conservato nella nostra memoria.

Non dimentichiamoci più dei nostri sentimenti, celati dietro (in)distruttibili armature.

Impariamo ad amare ciò che siamo e che abbiamo, ad amare cioè il vento d’autunno che porta la tempesta così come il sole d’estate che scalda e abbronza la nostre pelli.

Quando torneremo alla nostra “normalità”, ricordiamoci che niente più sarà normale, ma tutto sarà cambiato… Inesorabilmente…

© È vietata la riproduzione integrale del testo o di parte di esso, se non all’autore e ad Etoile Centro Teatrale Europeo e Melpomene

 

 

Pensieri

di Serena Cassano

 

Sono passati ormai parecchi giorni da quando la mia vita è stata stravolta, totalmente. Adesso esisto solo io o forse non esisto più. Passano secondi, minuti, ore e sembra di star vivendo un sogno, qualcosa di surreale.

La mia realtà adesso non sono più gli amici, non più le risate, non più gli abbracci e gli sguardi intenditori tra i miei complici dello spettacolo, non più la fatica di sollevare pesi, non più e basta. È tutto uno stravolgimento di emozioni continue. Passo dal sorriso alle lacrime che scendono sul volto. Ma cosa sono, cosa sono stata?

Non avevo mai guardato in me veramente e adesso non so farlo, mi perdo. Eppure mi chiedo il perché. Forse non ho mai avuto una vera identità. Sono mille sfaccettature di me: cuore di ghiaccio, troppo affettuosa da sorprendersi, quella con la risposta sempre pronta, quella su cui puoi contare sempre o quella a cui non interessa di nessuno.

Ma se dovessi scegliere un aggettivo per descrivermi, beh non lo saprei.

Prima occupavo la mia vita con miliardi di cose da fare e persone da incontrare perché non ho mai saputo star ferma per più di cinque minuti o forse perché non mi è mai piaciuta la solitudine. E cazzo, sì, fa davvero male stare da soli. Le persone ti riempiono il cuore e costruiscono quella parte di te ancora incompleta, è forse per questo che non sono me, ma mille sfaccettature. Perché queste mille sfaccettature sono le persone che incontro sulla mia strada. Di loro prendo le cose che più mi colpiscono e mi rimangono nel cuore. E questo star senza di loro mi rende incompleta. E a un certo punto penso a quanto mi manchino quei gesti e quelle loro piccolezze e spero che tutto questo finisca presto perché io senza me non so stare.

© È vietata la riproduzione integrale del testo o di parte di esso, se non all’autore e ad Etoile Centro Teatrale Europeo e Melpomene

 

 

Alla ricerca di un senso…

di Gloria Giglioli

 

Mi chiamo Celeste, come il colore del cielo che da sempre amo guardare, è il colore dei miei occhi ed è anche il colore che ho sempre pensato stesse bene con il verde, il colore della speranza, quella a cui oggi con tutte le nostre forze ci aggrappiamo.

Sono: figlia, sorella, nipote, amica, laureata, testarda, sognatrice, determinata, solare, più semplicemente sono una ragazza di 23 anni, residente in provincia di Reggio Emilia e di lavoro faccio l’insegnante.

Ecco il Covid-19 è venuto a ricordarmi che sono prima di tutto umana e soprattutto che sono  fragile come la porcellana. È un virus arrogante e presuntuoso, che ci dice che in questa terra siamo solo di passaggio, di trattarla bene, perché di fronte alla potenza della natura in un attimo ci possiamo sentire piccoli ed indifesi.  

Questa quarantena forzata mi ha portata ad una lunga introspezione. Sono sempre stata una persona che non ha il grande dono di godere del momento presente, di stare nel qui ed ora. Faccio una cosa e penso a quello che devo fare dopo o a mille altre possibili alternative, è finita una lunga giornata e mi chiedo cosa mi aspetterà il domani. Ora che il tempo si è come dire fermato, l’oggi ed il domani non mi sembrano poi così diversi e mi sono tolta anche questa ansia del fare, tutto e subito. Ora ho la possibilità di godere del momento presente, del qui ed ora, nel fare la colazione, lavarmi, vestirmi e farmi bella, farmi bella per me. È il tempo del prendersi cura degli altri e di se stessi.  Ed ecco un’altra lezione che ci viene data sull’amore, da “Se mi ami, se mi vuoi bene, stammi vicino” a “Se mi ami e mi vuoi proteggere, per favore stammi lontano”. Sono stata assalita anche da tanta malinconia, perché spesso e volentieri penso a chi non c’è, alle persone che ho imparato a lasciare andare, perché hanno scelto di non far più parte della mia vita. Le ho pensate, mi sono chiesta come stanno, se anche loro come me a volte hanno paura, se come me si sforzano di essere di buon umore e di godere delle piccole cose, come il sole che sorge ad ogni mattina, i fiorellini che sbocciano e l’aria che ora è più pulita. Questi piccoli momenti di malinconia si concludono con un “Come stai? “ che rimane una bozza nel telefono con la speranza che stiano bene , con i miei occhi lucidi ed un bel sorriso, nonostante tutto. E poi ci sono le mie amiche di sempre, mi mancano immensamente , ma che sento molto spesso e siamo legate da un gran bene che è come se nulla fosse cambiato, con tanta voglia di rivederci presto  e riabbracciarci più forti di prima.  

Ripenso a quelle persone che sono tornate giù al sud dalle loro famiglie , all’annuncio che saremmo diventati zona rossa. Io finora ho sempre vissuto con i miei genitori e quindi non so cosa significa sentire la lontananza e la nostalgia di casa, avere un affitto da pagare e tante spese ora sulle proprie spalle. L’unica cosa che so è che avere i genitori in casa 24 h su 24, per un periodo così lungo, in un contesto sociale non proprio felice e sereno, a volte la voglia di evadere in giardino e costruire una casetta sull’albero per me ed il mio amatissimo cagnolino, è tanta!!! A volte credo sia bello anche stare da soli ed è fondamentale imparare a bastarsi. 

La cosa che più mi sorprende è che il fatto che tutto si sia fermato è un pensiero puramente soggettivo, perché la primavera non si è fermata, la scuola non si è fermata, la terra non ha smesso di girare, la morte non si è fermata ma nemmeno la vita. Il Covid-19, invece si fermerà, con l’impegno di tutti noi nel rispettare rigorosamente le regole. Tutto tornerà come prima? Io direi che tutto avrà un significato ed un valore diverso più profondo. Le cassiere e gli operatori del supermercato, alla faccia di chi ha sempre guardato con diffidenza il loro lavoro, hanno finalmente ottenuto il loro riscatto; i medici, infermieri, operatori sociali, svolgono un lavoro a mio parere straordinario che richiede straordinari, ricordiamolo sempre, soprattutto quando tutto questo sarà finito e non saranno più con tutti gli occhi puntati addosso.  Vorrei che il disprezzo e la discriminazione che spesso riserviamo agli immigrati, che fuggono dai loro paesi in seguito a guerre e carestie, fosse sostituito da una forte solidarietà ed empatia. C’è un film che amo molto che si chiama “Collateral Beauty” significa Bellezza Collaterale, che racconta come l’Amore, il Tempo e la Morte mettono in contatto ogni singolo essere umano sulla terra “ Desideriamo l’amore, temiamo la morte, vorremmo avere più tempo”. Ed è proprio questa la bellezza collaterale del coronavirus: la riscoperta del tempo, quello che nel nostro ritmo frenetico chiamavo “tempo libero”, l’importanza dell’Amore che è lo scopo più bello per cui siamo al mondo, è quello che ci fa sentire vivi e più semplicemente ci rende umani ed infine il timore della morte, che molti di noi purtroppo ora sentono vicino. 

Io non temo la morte, per il semplice fatto che è una cosa che non posso controllare, più grande di me, che fa parte del ciclo; ma amo la vita, ho voglia e mi sento immensamente grata di vivere ed amare e doveva succedere il Coronavirus per ricordarcelo… 

© È vietata la riproduzione integrale del testo o di parte di esso, se non all’autore e ad Etoile Centro Teatrale Europeo e Melpomene

 

 

Caro diario

di Martina Peserico

Caro diario,

ci sono tante cose da dire e che mi (e ci) tormentano, soprattutto in questi giorni. Nel giro di qualche mese (o forse qualche giorno, almeno qui in Italia), quello che si prosperava essere l’inizio di un anno felice si è trasformato in un incubo.

Sai, siamo nel pieno di un’epidemia che sta contagiando tantissime persone, anche nella città in cui vivo io, e che sta facendo morire migliaia persone, non solo in Italia ma anche in molti paesi esteri. Si è proprio nella disperazione più totale. Le persone non hanno la possibilità neanche di vedere i propri cari. Nemmeno in punto di morte. Nemmeno dopo di essa. Nemmeno per un ultimo saluto.

La situazione è molto dolorosa per tutti, anche per me che ho la fortuna di stare bene e di avere una famiglia che lo è altrettanto. Tra le persone c’è molta preoccupazione anche per i propri cari, magari anziani, magari comunque, per un motivo o per un altro, fragili o a centinaia o migliaia di chilometri di distanza per lavoro o per studio.

Sai una cosa, però? Forse questo momento di blocco totale ce lo meritavamo proprio. Sicuramente non meritavamo un’epidemia del genere, ma un momento di fermo totale quello di certo. Sai perché? Te lo spiego io, che, oltretutto, lo sto vivendo in prima persona.

Ce lo meritavamo perché ora più di prima stiamo capendo il valore della vita, della nostra salute, della natura e di chi ci sta intorno.

Ce lo meritiamo perché grazie a ciò stiamo vivendo abbiamo capito cosa vuol dire rispetto e solidarietà anche verso persone e cose verso cui avevamo puntato il dito fino a poco tempo fa, anche solo per un nostro pregiudizio personale basato sul nulla.

Ce lo meritiamo perché è grazie a ciò che abbiamo capito chi ci vuole bene e ama veramente e chi viene da noi solo per doppio fine.

Ce lo meritiamo perché è solo grazie a ciò che stiamo vivendo se abbiamo capito (o stiamo capendo) chi siamo veramente e quali sono le nostre priorità della vita, in tutti i sensi.

Ce lo meritiamo perché la nostra frenetica vita non ci ha mai fatto capire che viviamo in un Paese meraviglioso e perché non ci ha mai fatto capire che l’unica cosa che veramente ci manca è il TEMPO. Il tempo per essere noi stessi e per capire il valore delle cose, delle persone, delle relazioni.

Quindi, sai una cosa?

GRAZIE.

Grazie perché, nonostante il periodo terribile che stiamo affrontando, sono sicura che quello che stiamo vivendo ci farà ripartire guardando al futuro e alla vita con occhio diverso da quello che avevamo fino a poco fa. Sicuramente sarà difficile ripartire, soprattutto all’inizio, ma, come si usa dire spesso in questi giorni: ANDRÀ TUTTO BENE.

A presto,

la tua Martina P.

© È vietata la riproduzione integrale del testo o di parte di esso, se non all’autore e ad Etoile Centro Teatrale Europeo e Melpomene

 

 

Il teatro

di Francesca Pia Accardo

Nel 2015 il teatro ha iniziato a prendere una forte posizione nella mia vita,sin da piccola ho sempre sognato questo mondo come qualcosa di magico ed è effettivamente così.

Il teatro non è solo imparare un copione,è scoprire se stessi,capire le relazioni con chi ci sta intorno,fare dei piccoli sforzi in più per raggiungere i propri obiettivi.

Senza il teatro si sente particolarmente questa mancanza di essere lì,in sala a provare e provare ed essere felici di quello che abbiamo fatto una volta finita lezione.

Ma grazie ad Etoile,che in questo periodo molto difficile,stanno accompagnando le nostre giornate con quel pizzico di magia di cui abbiamo bisogno.

© È vietata la riproduzione integrale del testo o di parte di esso, se non all’autore e ad Etoile Centro Teatrale Europeo e Melpomene

 

 

Pensiero

di Franck Luci

 

Scusa ma ,scusa pa,

Scusa ma, scusa pa …

 

Per quello che vi ho fatto per quello che vi ho detto, per quello che ho commesso,

Perché sono un disastro, perché faccio fracasso, perché come il mio suono sono distorto …

Scusatemi davvero, ma questa è la mia vita, mistura di emozioni bipolari come poli opposti di una calamita …

Quante ne ho passate, quante ne combinate, cazzate su cazzate dette e fatte senza pause …

Ma adesso scrivo per voi , scrivo ciò che sento e non basterebbe un quaderno per spiegarvi questo sentimento …

Se partiamo dal principio , sono nato il 4 del 97 sputato dalla vita senza invito , ma un ragazzino tranquillo in una famiglia tranquilla , quando ad una certa è scoccata una scintilla , quando l’ho vista distesa in quella bara e la vita da così dolce è diventata tanto amara …

È il mio cervello si è spezzato con il mio cuore frantumato in mille pezzi , conoscendo i miei mille volti davanti a mille specchi.

Così mi sono chiuso , in un mondo tutto mio , dove forse a essere felice ci riesco anche io.

Poi ho conosciuta la mia dea , finalmente si è mostrata a me sotto forma di note , ho iniziato a scrivere giorno dopo giorno , notte dopo notte per sfogare il mio dolore,

E funzionava finché tutto non è andato di nuovo in fiamme , e la mia faccia cambio nuovamente quasi come un diamante.

E lì partì il mio periodo nero, ancora non ci credo, alcol, medicine, risse, 

 tutto ciò che volevo..

Desideravo che qualcuno mi facesse male sul serio perché per farlo da solo il coraggio non lo avevo e credevo che qualcosa mi portasse via per davvero.

E adesso sono solo , non ho amici non ho niente , ma non posso farci niente fa parte delle conseguenze ,che con tristezza ho accettato , valutato e ho stimato , che se sto solo un motivo c’è e oggi l’ho spiegato ..

Sono spiazzato, spezzato, piegato, ma almeno tutto questo mi ha formato, e in giro indosso la mia ultima maschera che ancora non ho levato.

Ma tornando a voi, vi ho deluso tante di quelle volte che non riesco neanche più contarle, e parlando di voi come con il primo amore nello stomaco ho le farfalle …

Siete il mio giorno preferito, il mio brano preferito, il mio quadro preferito, il mio artista preferito, siete tutto ciò che mi circonda e vi vedo ovunque dovunque e in ogni forma. 

Ho scritto questo perché non mi sono mai sfogato apertamente , anche se so che avrei potuto e mi avreste ascoltato senza battere ciglio … adesso vado un bacio dal pazzo di vostro figlio

© È vietata la riproduzione integrale del testo o di parte di esso, se non all’autore e ad Etoile Centro Teatrale Europeo e Melpomene

 

“Scopri chi sei e non avere paura di esserlo”

di Chiara Calandrino

“Vinci la paura della pagina bianca”. Mi piace questa sfida. Da piccola avevo un diario nel quale scrivevo di tutto, tutto ciò che mi passava per la testa, tutti miei pensieri. Era bellissimo. Con il tempo ho perso questa buona abitudine e adesso che vorrei riprenderla mi viene molto difficile. Mi è stato regalato un diario (tra l’altro bellissimo pieno di paillettes) e una penna (anch’essa super figa dorata) ma niente. Ho come un blocco dovuto al fatto che mentre ho quella penna in mano mi passano per la testa mille e più cose che vorrei scrivere e poi non riesco, non so da dove cominciare.

 

Sono Chiara e vengo da Alcamo, in Sicilia. Mi sono laureata in Lingue e Letterature moderne e adesso sono al secondo anno di specialistica, ci siamo quasi alla fine di questo percorso di studi. Ho sempre amato la letteratura, adoro i racconti delle nonne e le leggende siciliane; credo che dal passato si possa imparare tantissimo e si possa costruire un futuro migliore. 

Oggi è stata una giornata particolare per me e per questo mi convinco a scrivere. Credo che questo periodo ci costringa a viverci. A vivere noi stessi, a cercare di capirci. Rivivo momenti in casa che vivevo da bambina: mio padre che prepara la colazione, litigare con le mie sorelle per poi stringerci in un abbraccio prima di andare a dormire, ho persino cucinato con mia madre (no, questo non lo facevo da bambina ne lo farò più finita la quarantena). In questi ultimi giorni ho anche riflettuto su come e quanto siano cambiate le cose in un anno e mi sono trovata a rivisitare il passato capendo con maggiore consapevolezza come sono giunta a questo presente. Insomma mi sono guardata indietro; oggi, invece, volgo lo sguardo avanti. 

A breve finirò gli studi e ho fame. Tantissima. Per troppo tempo sono stata sui libri e adesso ho voglia di fare. Prima di questa quarantena si diceva che sarebbe a breve uscito il bando per il concorso: avrei avuto la possibilità d’insegnare letteratura inglese o letteratura francese. Credevo davvero di volerlo , sarebbe decisamente una scelta conveniente e me ne rendo conto ma non posso farlo. Io ho fame sì, ma di teatro. Troppa. È precarietà, è instabilità. Ma è il mio sogno. È ciò che mi rende felice. Per anni ho cercato di nasconderlo a me stessa credendo che fosse una delusione per i miei o per chi mi sta attorno. Da piccola quando i miei nonni mi chiedevano che cosa volessi fare da grande io rispondevo sempre con risposte come “la ballerina” o “la cantante”, adesso che ci rifletto non ho mai detto “attrice” ma comunque facevo sempre riferimento a qualcosa di artistico. Allora loro mi guardavano e ridevano, così crescendo ho smesso di dire ciò che volevo fare e se lo dicevo mi limitavo a mestieri per loro “concretizzabili” ma ho sempre continuato a fare teatro. Il primo spettacolo fu “Giufà”, avevo 12 anni e interpretavo una bambola ma ero ancora troppo piccola per capire quanto innamorata fossi. 

Circa sette anni fa entro a far parte della compagnia Piccolo Teatro di Alcamo; un gruppo di amici nel lontano 1976 decidono di creare una compagnia. Nessuno di loro aveva studiato teatro e tutto ciò che mi hanno insegnato è frutto dell’esperienza e dell’amore per esso. Grazie a loro comincio a capire quanto mi piaccia l’odore di un copione nuovo, il colore di una scenografia, la scoperta, con loro nasce il primo stupore dovuto ad un applauso, ad un volto che mi guarda grato, la bellezza di conoscere ogni giorno meglio un personaggio che dovrai interpretare per poi dargli giorno dopo giorno forma fino a quando lo comprendi a fondo, ci sei. E ci sei proprio dentro. Sei tu ma sei al contempo la tua creazione. È meraviglioso e solo una stupida si farebbe scappare l’opportunità di vivere per questo. Nel Settembre di ormai tre anni fa scopro l’esistenza di Etoile Centro Teatrale Europeo e nel Gennaio dell’anno scorso comincia per me il percorso Itaf. Si trattava di uno stile teatrale ben diverso da quello che ero solita vedere ma una cosa accomunava i due ambienti: la passione. Ho amato il modo in cui mi sono stati tramandati determinati insegnamenti, grazie a loro ho assaporato la stanchezza di un giorno in sala prove senza pause, sono rimasta incantata sin dal primo giorno da occhi di ragazzi che come me avevano quella passione, disarmata davanti a tanta bellezza. Da quel momento comincio a realizzare quanto importante possa essere il teatro per la società in cui viviamo, quanto bene possa fare al prossimo oltre che a te stesso e mi rendo conto del fatto che esista una necessità in me. 

Una persona per me molto importante oggi mi ha detto: “Chiara, alla fine di questa quarantena ci saranno due tipi di persone: gli sconfitti e i vittoriosi. Gli sconfitti saranno quelle persone che hanno dormito e non hanno fatto alcunché, i vittoriosi saranno tutti coloro che hanno dedicato questo tempo prezioso riflettendo, progettando, creando, amandosi” Allora semplicemente amatevi e abbiate il coraggio di amare chi siete, quello che volete diventare. Abbiate il coraggio di cambiare tutto se non vi rende felici e, soprattutto, non fate scelte convenienti.

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Con le mie parole

di Gaetano Velardi

 

Con le mie parole. 

Quelle di Gaetano, 23 anni. 

Vengo da Napoli e sono uno studente di Giurisprudenza del quarto anno, lavoro già nel campo in uno studio d’avvocato, sono molto attivo nell’ambito parrocchiale della mia città con particolare attenzione verso i bambini.

Al 25 Marzo la media di morti ogni giorno in Italia per Covid-19, così si chiama, non semplice Coronavirus, è di 650 persone.

Un bollettino di guerra in confronto potrebbe essere più mite; eppure ancora c’è chi lo sottovaluta, chi esce per niente, chi fa la spesa quattro, anche cinque volte in una settimana.

Non avrei mai creduto di vivere questa esperienza sulla mia pelle, forse la guerra (tornando a quella di prima) sarebbe stata più probabile, eppure ora è qui e va affrontato. Come? 

Innanzitutto con coraggio, non possiamo permetterci di farci schiacciare, di pensare che non ne usciremo, né è il momento di pensare che ne usciremo ma distrutti: questo è solo il momento di pensare ad uscirne.

Il verbo uscire lo abbiamo un po’ dimenticato di questi tempi..

Dopo il coraggio direi con organizzazione: ho visto tantissime città d’Italia essersi adoperate per permettere ai cittadini di fare la spesa in giorni prestabiliti, seguendo un ordine alfabetico, un grande soluzione che regala più serenità anche a chi vende, non solo a chi compra.

Da un lato sono fortunato, mio padre vende alimentari e allora continua a lavorare, ma tutte quelle persone costrette a casa? Penso a loro…al fatto che da un giorno all’altro sono state rinchiuse (giustamente) in casa senza la possibilità di continuare a lavorare; chi ha dipendenti da mantenere, chi solo la sua famiglia: c’è da disperarsi.

Mi viene da cercare i lati positivi, mi viene da riflettere, da scrivere, da studiare, poi guardo un film…alla fine cedo anche alla Playstation.

Mi interesso tanto di Politica ma in questo periodo è l’ultimo dei miei pensieri, destra, sinistra, centro, l’importante è che qualcuno faccia qualcosa e che lo faccia per il bene di tutti..senza polemiche, ne ho già viste troppe: la gente intanto continua ad ammalarsi, a morire. C’è tanta solidarietà anche da parte di altri paesi, è il momento di tendersi la mano (con i guanti, s’intende).

Questo virus è arrivato in un momento particolare della storia dell’umanità, lo slogan che più mi piace usare non è “uniti, ce la faremo” ma “saremo migliori”.

Sì perché in un’epoca in cui il contatto soprattutto tra i giovani avviene sempre di più attraverso i cellulari, i giochi non sono più all’aperto ma solo con una console è come se il mondo ci avesse detto: ecco, così volete vivere?! E “c’ha fatto ‘o piattino”, come si dice dalle mie parti.

Allora potremo essere migliori, scoprire quanto ci manca abbracciare, baciare, toccare, respirare aria pulita, uscire di casa; saremo toccati per sempre da questa cosa. La speranza è che si possa riscoprire il valore di ogni emozione, tenere ben impresso nella mente che per molto tempo non si è potuto ma che non appena ne saremo fuori, si potrà. Un’opportunità che la vita ci ha dato di correggere il tiro, di tornare sui binari, di capire cosa è necessario e cosa no, di capire che spesso lamentarsi di certe cose è SUPERFLUO, di capire che quel rapporto volevo recuperarlo ma anche un’occasione per troncarne uno che ormai mi faceva solo male. 

Il mio pensiero va a chi sta lottando, a chi non ce l’ha fatta e alle loro famiglie.

Ai sanitari, ormai stremati, perché dopo questa esperienza sia più chiaro a tutti il compito essenziale che svolgono nella nostra società.

Ai commercianti, quelli veri, quelli che ci hanno portato la spesa fin sotto casa, quelli che hanno donato cibo, quelli che “don Antò mi pagate quando tornate a lavorare, buona giornata”.

Agli sciacalli, a chi si è fatto pagare una mascherina un occhio della testa, a chi le ha fatte scomparire, a chi ha pensato solo a sé. Sarete migliori.

Sono Gaetano ho 23 anni e sarò migliore.

Saremo migliori.

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28 Marzo 2020 

di Giulia Gasparini

 

Ieri pranzavo con mia nonna e a un certo punto, come ogni volta, lei inizia a ricordare.

Ricorda persone, luoghi e avvenimenti e, come ogni volta, alla fine mi guarda interrogativa e mi chiede “tal se, no?” (che nel nostro dialetto significa “lo sai, no?”).

Come ogni volta io scuoto la testa e, come ogni volta, vedo comparire in lei un’aria sorpresa e per certi versi dispiaciuta.

Così per spezzare la delusione le chiedo “ma tu e il nonno dove vi siete conosciuti?”

A ballare, risponde. E tace. E in quel silenzio io immagino. Immagino i loro corpi che si sfiorano, si conoscono, si incontrano e si scelgono.

Poi lei riprende il racconto e parla del luogo, di cosa c’era e di cosa c’è ora, di chi era con lei quella sera e forse anche di com’era vestita.

Ma io non l’ascolto più, sono ferma a quel primo contatto,avvenuto in una sala da ballo all’inizio degli anni 50.

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Monadi

di  Anonimo 

Noi e i nostri muri. 

Forse, per una volta, sarebbero state proprio le recinzioni a calmare le acque. 

Non era possibile opporsi: bisognava solo comprendere, interiorizzare e così persuadersi. Ognuno e tutti alle prese con la solitudine, arma a doppio taglio: si imparava a ri-scoprirsi in quanto esseri distanti, nel più grande cerchio di una società fatta di monadi. 

Il periodo precedente era trascorso sotto l’ala di chi voleva fornire protezione contro il nemico: il nemico arrivava dal mare, disperato. Ora la minaccia alla propria incolumità arrivava dagli stessi che erano stati i bisognosi di protezione

Erano giorni avvolti dalla nebbia della solitudine, del sospetto, del cielo. 

La paura è un sentimento che può essere facilmente fatto insorgere poiché connaturata alla condizione precaria dell’essere umano. E fu così che ogni monade cominciò a spaventare l’altra: era tornata in voga la caccia alle streghe. Non tutti e non tutti con gli stessi tempi si rendevano conto del dilagare del problema. Probabilmente non ci si rendeva conto neanche della sua natura. 

Gli ominidi avevano cercato di settorializzare l’organizzazione sociale; adesso, l’imperversare del male sfondava gli argini organizzativi e investiva tutti in maniera trasversale.

Il silenzio, dimenticato, sottovalutato, calpestato dalla società del rumore si stava prendendo la sua rivincita. Il mare era diventato lontano anche per le popolazioni costiere, per gli solani; le montagne, alte e austere, si ergevano al di sopra della contestualità. 

In questi giorni nuovi non erano offerti servizi ai cittadini, bensì, chi di loro ne fosse stato in grado, si offriva agli altri. Comparivano le trombe dietro le ringhiere, e le note, a volte, spodestavano il silenzio. 

Lei e lui si spendevano per non interrompersi. Bisognava materializzarsi e farsi schermo per resistere. Si insinuava la consapevolezza della mancanza, che si univa all’inattendibilità di qualsivoglia previsione. 

Per lei, quel giorno di pioggia in cui era uscita sul balcone per lasciare che i pensieri si inumidissero, aveva costituito un’epifania. Aveva preso contezza della possibilità di divenire ponte tra un passato inceppato dentro un presente zoppicante, verso un divenire fluido. Era stato allora che aveva scorto, al di là di una finestra, una bambina accostata allo schienale di una sedia, immersa in un profondo grand-plié, ad occhi chiusi. Poteva sentire la musica classica, quasi fosse un’immagine senza tempo. Non aveva voluto indugiare sull’intimità del momento e, madida, si era ritirata tra le sue mura, piena dell’odore della pioggia.

Lui viveva con la terra e i suoi smottamenti. Con il profumo di verde e la friabilità marrone. Semplice, il suo animo si nutriva della primavera dell’infanzia. Una lotta la sua, per resistere all’estirpazione dalla dimensione sociale, che si imperniava su una saldezza d’animo morbidamente rassicurante.

Si oscillava tra la rassegnazione e la noia. Di quest’ultima si esploravano i meandri, la si scomponeva in tasselli costituenti e la si ricomponeva, dura e solida, declinata alla luce della consapevolezza dell’esistenza di condizioni peggiori. Chi di noia non poteva certo ubriacarsi erano i nuovi eroi, quelle monadi che, tra le altre, continuavano a fare da ponte, indossando camici.

Si riscopriva la corporeità del tempo, un tempo talvolta fluido e lento, talvolta come lama, vissuto così perché avviluppato all’ansia che scivolasse tra le dita e fosse perso per sempre. 

Lei aveva atteso con ossessione la fluidità, provenendo dalle incrostazioni della vita. Adesso la sua ansia di futuro stava rimettendo in discussione il senso di ogni obiettivo, perfino del sentimento, di tutto ciò che era riuscita a provare inaspettatamente, o a fatica. 

Lui la incoraggiava tracciando solchi pronti ad accogliere semi nuovi. Accettava la necessità di coprire con un mantello le ansie reciproche e di farne un cuscino, per garantirle il piacere del sonno.

Durante quei giorni perivano le monadi più fragili, vittime di una catena di prevaricazione, la cui presa d’atto avrebbe condotto (auspicatamente) le altre a farsi portavoce dell’urlo del cambiamento lanciato dal silenzio. Ogni nuovo giorno era una lotta contro il pendolo oscillante tra la rassegnazione e la noia, nella volontà di allearsi con un futuro nuovo. 

Loro si sognavano a mani tese, con i corpi tesi. Lei si dimenava per dare ancora valore alle cellule della sua famiglia: che ce ne fosse uno ne era certa, e conduceva ostinatamente la sua ricerca. Lui le prometteva la luce dirompente del sole e quella tenue e sensuale della luna. Le loro anime sapevano inconsciamente della nascita dei papaveri che, finalmente estranei al raggio d’azione umano, tinteggiavano il volto del silenzio.

Si erano promessi di respirare presto il vento, di ubriacarsi presto del mare.

Le monadi, adesso tutte, anelavano sfiorarsi, fissarsi negli occhi e poi perdersi, nella porosità di una folla globale eamica.

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BASTANO GLI OCCHI 

di Arianna Cantore 

11:53 22/03/2020 14^ giorno 

Nessuno credeva che mi ricordassi veramente di quando da piccola mettevo i pannolini, “è impossibile- dicevano-non avevi neanche 3 anni quando l’hai messo l’ultima volta”, e invece lo ricordo davvero. ” Neanche tu mi credi mamma?”- chiesi quando iniziai ad avere la ragione e il cassetto dei ricordi iniziava ad essere meno offuscato. “Neanche tu mi credi Alice?” la mia domanda aveva lo stesso suono e lo stesso sapore di quella del Cappellaio Matto; quest’ultimo da una parte, io dall’altra ci sentivamo pronunciare un “impossibile” come risposta che poi è diventato possibile quando indicai esattamente in punto della casa, dietro una porta, in cui mamma conservava le scorte di pannolini Pampers, una confezione accanto all’altra, pronte per essere aperte. Così davvero detti la conferma che la mia memoria fotografica non mentiva e per la prima volta qualcuno mi credette. 

Se ne avessi la possibilità il mio istinto non esiterebbe a tornare indietro nel tempo ad indossare i pannolini: se ora avessi due anni non capirei cosa stesse succedendo, non capirei di dover in casa, di dover rinunciare alla vita che con tanta fatica mi sono creata, che seppur non perfetta è la mia; se avessi due anni non sentirei il peso di dover parlare con mia nonna tramite la finestra, di passarle la spesa e le medicine da lì, dandomi in cambio il cioccolatino di sempre; non saprei che suono avrebbero le sue parole che dicono : “sei bellissima anche con la mascherina, ti si vedono i capelli e gli occhi e basta cosi”. Basta così mi ripeto e la nonna ha sicuramente ragione, bastano gli occhi, ci hanno coperto il sorriso ma bastano gli occhi, quelli che in coda al supermercato incroci, qualcuno abbassa subito lo sguardo, con altri invece ci si guarda increduli, per un attimo il cervello parla -“cosa ci fa lui con la mascherina?”- e poi ti accorgi di averla anche tu. 

Se avessi due anni avrei passato le giornate in casa giocando con mio fratello e non vedrei mia mamma stare male perchè 1000 chilometri ci separano.

Se avessi due anni non capirei nulla di tutto questo, non capirei cosa significano i numeri dei contagiati, i numeri dei positivi in terapia intensiva e i numeri dei deceduti, numeri dietro cui ci sono migliaia di persone con un nome ed un cognome a cui nessuno fa caso e sembra che a nessuno importi tanto quando dovrebbe, perchè la paura di essere contagiati distrae da qualsiasi sentimento, anche di pietà, la paura ci separa, ci fa schivare repentinamente una persona che incrociamo all’improvviso appena girato l’angolo di una strada.

Non ho 2 anni ma 19 e capisco benissimo tutto questo, capisco anche chi, vedendo il bicchiere mezzo vuoto dice ” è impossibile uscirne da questa situazione, è troppo grave, ne avremo ancora per molti mesi, non torneremo facilmente alla normalità”; io invece sulle orme di Alice “riesco a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione”, la mia testa da diciannovenne e il mio cuore da bambina sanno che niente è impossibile, che torneremo a vivere di abbracci e tutto andrà bene.

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PAROLE 

di Emanuela

 

Con le mie parole, non sono molto brava perché mi emoziono facilmente e le lacrime invadono il mio volto. In questo periodo non facile le preoccupazioni invadono la nostra anima e la paura più grande per me è che i miei figli stiano bene. 

Purtroppo io conosco bene la sofferenza e la paura, ci sono passata parecchie volte, ma non voglio solo parlare della mia di vita. 

In questo periodo di paura e frustrazione i pensieri  le paure invadono le nostre emozioni, ma c’è un lume che ci indica la strada e questo lume si chiama speranza. 

Sono sicura che ci rialzeremo più forti e consapevoli che l’amore e la speranza sono più forti della tristezza e paura. Le mie sono parole semplici, forse banali,  ma vengono dal mio cuore.

Sono Emanuela 54 e sono stata adottata da Reggio Emilia.

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A un metro da te 

di Francesca

8 marzo 2020    

Un film: due adolescenti si innamorano all’interno di un reparto ospedaliero ma, a causa di una grave patologia, non possono entrare in contatto, al massimo possono stare a un metro l’uno dall’altra. La forte attrazione tra i due ragazzi, subisce ogni volta una frenata tragica che li tiene uno lontano dall’altra, come un confine sul varco stradale di una zona rossa.  

I fidanzati si salutano a distanza, i figli salutano i genitori e viceversa. Questa invece è stata la realtà, non un film. 

Respiro profondamente: aria mattutina frizzante, pulita. Profuma di erba appena tagliata, terra umida, fiori di pesco. Sento ronzio di api al lavoro. Vita. Nella notte ci comunicano che anche il nostro territorio è diventato “zona rossa”. 

Restrizioni, contingentamenti, igiene personale, isolamento,  zona rossa, contagio da coronavirus, scorte alimentari, tamponi, numeri (malati, guariti, asintomatici), quanti numeri a tutte le ore del giorno e della notte. 

L’ondata del virus sconosciuto così lontana nel tempo e nello spazio originata da un città cinese, ora ci travolge nella quotidianità. Chi lo poteva immaginare? Dalle nostre vite guardavamo gli uomini in tute bianche disinfettare i luoghi , assistere le persone che come fantasmi si aggiravano nella città isolata.

Noi: ma come si fa in dieci giorni a costruire un ospedale? Possibile? Si prende il caffè al bar dei cinesi per solidarietà e per dare una testimonianza contro le discriminazioni… ma chi avrebbe mai immaginato che sarebbe capitato dopo qualche settimana proprio a noi? 

PRIMA.  

La vita procede, piena, stracolma, intensa. Mi faccio toccare dalle storie degli altri, le vite degli altri, a volte le sfioro a volte ci entro senza perdere il senso dell’orientamento, poi le lascio andare. Sono contagiata dalle storie degli altri e dalla vitalità che torno a vedere intorno. Prima tenevo una distanza di sicurezza, osservavo attraverso un binocolo che filtrava e proteggeva dal troppo coinvolgimento…. era il mio modo di gestire le narrazioni altrui, tante.  

Spara la pistola dello starter: gli atleti scattano e parte l’accelerazione, esplosione di energia e forza individuale. Adrenalina pura nella corsa ad ostacoli! Il loro superamento viene definito “passaggio: errato chiamare il gesto “salto dell’ostacolo” perché farebbe pensare ad un’interruzione della corsa, in realtà l’azione di corsa viene solo modificata al momento del passaggio. E’ fondamentale avere un ottimo senso del ritmo. 

Sì, ho trovato un rimo armonico a volte, una aritmia altre volte, ma il cuore torna a battere, forte. Permette di aprirsi al mondo, di appassionarsi di nuovo e di fare appassionare chi ti è accanto. Nulla ti affatica, comincia a scoprire per la prima volta una energia che non si esaurisce alla fine della giornata lavorativa e famigliare. Torno a teatro la sera. Permette di pensare, creare, incontrare altro: stimoli, bellezza, suoni, connessioni che ricadono a pioggia rendendo più prezioso il mio percorrere le giornate successive. Incontri e scontri naturalmente. 

Si affronta la giornata con entusiasmo, non sminuendo le difficoltà, cantando a squarciagola in auto le canzoni più significative, ora. Fossati versus Brunori sas: quali brividi proverà qualcuno nell’accostamento improprio, ma vi assicuro, sono fonte di ispirazione in questi mesi. 

Tanti stimoli che continuano anche di notte, mi sveglio all’improvviso e parto a pensare…… non dormo per ore……”il miglior modo di resistere alle tentazioni è cedere ad esse (scriveva Oscar Wilde)”…….. quasi ad anticipare il prossimo stop.

 

23 marzo 2010 

DOPO. 

Cosa accade quando ti dicono di fermarti mentre sei nel pieno della corsa? STOP: non conosco il significato di questa parola. 

Durante l’accellerazione, è come se qualcuno ti trattenesse all’improvviso con forza uguale e contraria alla tua direzione di corsa. Improvvisa e violenta la frenata. 

 

Frustrante, adesso la mia energia dove la dirigo? Il rimandare incontri e appuntamenti prima di una settimana, poi di due e poi di tre…..fino a quando? L’agenda di riempie di spazi vuoti che si fanno largo, mai visto. 

Stai ferma, stiamo a casa, state a casa: ma come si fa? Avrai finalmente un po’ di tempo per te, dicono, gli altri. 

Io provo ad organizzare la giornata da casa come se fosse scandita con i miei ritmi. Si studia e si lavora on- line, attività motoria, pausa pranzo (quando mai prima me la concedevo?) e via con il pomeriggio…. 

Passano i giorni e il momento più sociale è rappresentato dall’andare a fare la spesa. Due parole a distanza, con i visi che perdono espressione dietro alle mascherine. Cresce il desiderio di contatto reale con le persone che hai bisogno di sentire anche solo in video-chiamata. Nei miei sogni notturni, compaiono scene di feste chiassose e vivaci con tante persone vicine le une alle altre, che nella realtà non ho mai troppo amato. Quanti cambiamenti…… 

“Avrai finalmente un po’ di tempo per te”…..ma ancora lo riempio del tempo per gli altri, ne ho bisogno per me: accolgo narrazioni, vissuti, ascolto, amo farmi contagiare dalle storie altrui. Ancora una volta mi rendo conto, se ce ne fosse bisogno, che il significato di libertà, come afferma Massimo Recalcati (La Repubblica 14 marzo 2020), non è una manifestazione del potere dell’Ego, non è una liberazione dall’Altro, ma è sempre iscritto in un legame. Sempre. Lo capiamo ancora una volta mentre siamo costretti ad isolarci nelle nostre case. 

 Il desiderio di avvicinarsi, mescolarsi e confondersi……..non è mai stato così forte! 

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Lasciamo Spazio

di Sara Righi

 

Se esistesse un modo per descrivere il primo pensiero alla mattina, userei  due espressioni soltanto: mi manca, vorrei. Durante questo periodo molti verbi hanno fatto delle buone azioni: “Pensare” ha lasciato spazio al verbo “Ripensare”, “Trovare” si è spostato un po’ più in là per fare entrare piano piano “Ritrovare”. Ogni giorno c’è una sorpresa che ci chiama fuori da queste case, e noi ci fermiamo a guardarla più o meno alla stessa ora del giorno, come se a breve dovesse dirci: ”la più bella sorpresa è lì dentro.”

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Con le tue parole 

di Giulia Gregoris 

Ora lascio che la musica mi trascini del tutto e incomincio a scrivere così mi libero un po’ dal male che sento.

Dunque, come spiegheremo a chi nascerà tra decenni questo periodo? Ci provo.

Ascolta, Anna (mi va di chiamarla così questa bimba bionda con due trecce belline e una camicetta a quadretti rossi e bianchi che mi ascolta a gambe incrociate seduta sul tappeto), chiunque sia stato in giro per il mondo in quel periodo ha vissuto giorni molto strani.

Si era diffuso un virus (che è un mostro molto cattivo e molto bravo ad attaccarsi a chiunque) in tutto il mondo e la nostra vita, solitamente piena di innumerevoli impegni, di colpo era vuota e imprigionata dentro alle mura di casa. Devi sapere che, per lottare contro la facile diffusione della malattia cattiva, fu necessario obbligare le persone a rimanere in casa e mettere in pausa tutte le attività: lavori, lezioni nelle scuole e nelle università, sport, concerti, bar, ristoranti, cinema ecc. Insomma, tutte le ragioni che spingono gli esseri umani ad alzarsi la mattina e uscire dalle porte delle proprie case e imboccare vie, strade, scale e ascensori per fare quello che li rende attivi e produttivi. E quindi, Anna, toccava reinventarsi. Immagina un esercito di baristi baffuti, cameriere bionde, atleti in forze, professori, studenti e lavoratori di ogni tipo costretti a non uscire da casa per non mettere a rischio la loro vita e la vita dei loro cari. (Già, perché non era a rischio solo chi non obbediva e usciva, ma anche tutte le persone che poi, entrando in contatto con i trasgressori, si ammalavano). Quindi: tutti in casa e tutti senza niente da fare.

Come si vive un cambiamento del genere? Eh Anna è molto più difficile di come sembra. Non accontentarti mai di quello che leggi sui libri di storia, perché nei libri di storia non si trovano scritti gli umori e le emozioni, ma noi siamo fatti di umori ed emozioni.

Comunque, dato che qui non siamo in un libro di storia, ti racconto le emozioni che accomunavano gli abitanti di ogni città: sconforto, confusione, dolore, rassegnazione, noia.

Troppe persone hanno dato spazio alla paura e alla frenesia correndo ai supermercati per svuotarli e riempire le proprie case di provviste, rubando le mascherine a dottori per proteggersi la bocca ed il naso, litigando con amici per l’ultima bottiglia di disinfettante sullo scaffale.

Come sempre, c’è stato un enorme lato positivo: le persone hanno smesso di ragionare come singoli individui diffidenti verso il prossimo e hanno incominciato a ragionare come collettività. Gli italiani hanno risvegliato in loro un patriottismo finalmente libero da fascismi e nazionalismi (parole difficili, lo so, poi le studierai a scuola), hanno appeso le bandiere ai loro balconi, hanno applaudito ad orari precisi tutti insieme per dimostrarsi a vicenda di non essere soli, hanno aperto le finestre ed alzato il volume delle casse facendo risuonare per tutto il vicinato le più belle canzoni della storia musicale del nostro paese. In quei precisi momenti ci sentivamo tutti meno soli, eravamo tutti  fieri di essere italiani e riuscivamo a respirare più leggeri, convincendoci che, stando uniti, avremmo saputo superare anche questa.  

Io, come tutti, ho scoperto cosa vuol dire avere paura di vedere morire le persone a cui voglio bene, ho compreso la gigantesca importanza della libertà, l’impatto che hanno le relazioni tra persone su di noi, la bellezza del reinventarsi a dipingere cassettoni, disegnare, cantare, allenarsi e riempire le giornate un’ora alla volta, senza avere programmi. Ho capito a fondo che siamo fragili e meravigliosi, umani proprio perché è così facile romperci ma, appoggiandoci l’un l’altro, sappiamo vincere.

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L’omino di ovatta

di Erica Bussi 

 

C’era una volta,

un omino di ovatta che abitava in una casa di ovatta in un paese di omini di ceramica che abitavano in case di ceramica.

In quel paese c’era sempre il Sole, mai una nuvola aveva infastidito il cielo color zaffiro, mai un vento impertinente aveva osato turbare il torpore dell’aria, mai un tuono aveva interrotto il canto degli uccellini, e tutti gli abitanti del paese erano felici e trascorrevano le loro giornate all’aria aperta a giocare nel torrente o tra i cespugli tutti insieme.

Tutti tranne l’omino di ovatta. A lui non piaceva fare il bagno nel torrente, dopo poco era completamente zuppo, ero pesante, goffo, e non gli piaceva nemmeno correre tra i cespugli, dai quali usciva ricoperto di spine che lo pungevano e gli facevano male. Lui preferiva osservare gli steli d’erba crescere umili e i fiori sbocciare timidamente. Trascorreva le sue giornate in compagnia della Natura, ed era felice.

La sera tutti gli abitanti del paesino tornavano a casa e, stanchi, si addormentavano subito, chi su un cuscino di ceramica, e chi su un cuscino di ovatta.

Tutto andava bene.

Una mattina l’omino di ovatta, alzandosi dal letto, sentì che c’era qualcosa di diverso. C’era attorno a lui un silenzio surreale. Poi capì, gli uccellini avevano smesso di cantare. 

Turbato, fece per uscire di casa per capire cosa stesse succedendo, e si rimase basito nel vedere che il cielo era diventato bianco, che l’aria si muoveva vorticosamente ed era diventata fredda, e che i prati erano ricoperti da uno spesso strato di quello che avrebbe scoperto in seguito essere ghiaccio.

Vide alcuni omini di ceramica, confusi come lui, provare a muovere qualche passo su quella strana lastra biancastra, cadere, e rompersi. Improvvisamente il cielo diventò scuro, e un vibrante ruggito fece tremare tutti i cuori degli omini. Alcuni omini tremarono talmente forte da inciampare e infrangersi in mille pezzi.

L’omino di ovatta ebbe paura e decise di chiudersi in casa e non uscire più.

Cercò di dimenticarsi di quello che stava succedendo fuori. Si mise a studiare, a leggere, ad ascoltare musica. Non si fermava un momento, continuava a cercare di riempire la propria testa di frasi, parole, motivetti, formule.

Poi un giorno si accorse che stava trattenendo il fiato; tornò a respirare. 

Come l’aria gli riempì i polmoni, una goccia d’acqua lo colpì al cuore.  L’omino alzò lo sguardo e vide con orrore che l’acqua stava cadendo dal soffitto, ormai pregno. Aprì la finestra, dopo tanto tempo che non lo faceva, e vide che l’acqua cadeva direttamente dal cielo grigio. Le gocce di pioggia passarono dal piangere a ritmo di un lento ad un incalzante tiptap, e la casa dell’omino si inzuppò talmente tanto da iniziare a sciogliersi.

L’omino si ritrovò solo sotto la pioggia. La goccia d’acqua che gli era arrivata al cuore iniziò a sgorgargli dagli occhi. Si sedette a terra e pianse, mentre la pioggia lo colpiva incessantemente. Pianse ancora e ancora, finché non iniziò a sciogliersi a causa delle sue stesse lacrime.

Fu allora che si ricordò degli omini di ceramica, che in quel momento erano rifugiati nelle loro abitazioni di ceramica, al sicuro.

Riuscì a trascinarsi fino alla prima casa di ceramica, arrivare alla porta e bussare.

Un omino di ceramica baffuto gli aprì la porta e lo fece accomodare accanto al camino.

L’omino di ovatta iniziò ad asciugarsi, ma soprattutto iniziò a riscaldare il proprio animo, che lui stesso aveva congelato alla vista del ghiaccio il giorno in cui era iniziato l’inverno.

E per la prima volta iniziò a pensare a tutto quello che stava succedendo. Pensò a quel mattino, agli omini di ceramica frantumati sul ghiaccio, al tempo passato da solo in casa, alla pioggia e all’omino baffuto, che non aveva esitato un attimo ad aprirgli la porta.

E allora capì che l’unico modo di affrontare quella situazione era sostenendosi gli uni con gli altri, parlare, ridere, confidarsi le proprie paure; restare vicini nonostante la pioggia.

E alla fine il Sole tornò, il prato diventò più verde di prima e il cielo più azzurro.

O forse era tutto come una volta e gli omini avevano solamente imparato ad apprezzarli di più.

Gli omini di ceramica impararono ad osservare con curiosità e stupore la nascita degli steli d’erba e delle nuove gemme sui rami degli alberi, e l’omino di ovatta imparò a stare con gli altri, sebbene dovesse sopportare un po’ di umidità sui piedi e qualche rametto impigliato sulle braccia.

Ma tutti avevano anche imparato l’importanza di prendersi dei momenti per restare da soli a casa, per pensare e per capire meglio se stessi.

E tutti risero di nuovo, ed erano felici, insieme e da soli.

Tutto andava bene.

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Poesia

di Chiara Furlan 

 

“Da Lisbona:

Sappiate buttarvi nell’immensità di questa città

Ma non perdetevi il particolare

Abbiate di fronte a voi l’infinito

Ma girate spesso lo sguardo verso il granello di sabbia che avete tra le mani

Quanto é bello alzare gli occhi alle stelle durante le notti piene di libertà, ma sono stelle lontane negli anni da non appartenere né al nostro passato, né al nostro futuro

Ma la terra su cui camminiamo ogni giorno ci appartiene, é tangibile e si può toccare

Quanto é distante il sole che tramonta

Quanto é fresca la neve che si poggia sulla nostra pelle

Fermati ad osservare il movimento della mano di chi ti sta affianco,

La dolcezza con cui si morde il labbro se in imbarazzo,

L’attorcigliarsi dei piedi quando é disteso e pensieroso

É sicuramente affascinante il mistero del lontano e irraggiungibile

Ma sono i piccoli dettagli che ci riconducono al presente

Unico momento in cui siamo e possiamo viverci e crediamo in realtà di essere infinito”

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Con le tue parole 

di Antonella Caroprese 

 

Secondo Jean Piaget l’intelligenza può essere definita come la più elevata forma di adattamento dell’organismo all’ambiente in quanto essa riesce sia a trasformarsi durante l’evoluzione di un individuo e sia a modificare la realtà in cui l’individuo si trova a vivere. 

Indubbiamente la situazione odierna appare surreale, tuttavia, anche se inconsapevolmente, si è in grado di affrontarla al meglio affidandosi appunto alla propria intelligenza; continuando a vivere, sorridere, emozionarsi, arrabbiarsi e perché no, anche annoiarsi (è pur vero che già prima della quarantena esisteva la noia). 

Non è la vita in sé ad essersi fermata, ma la definizione che fino ad ora è stata data a questa. 

Siamo ancora i padroni di noi stessi, siamo ancora noi ad avere il potere di trarre benefici anche da ciò che può sembrare il momento peggiore.

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No Time to Live 

di  Karen Giudice e Leonardo Levoni 

 

23, 100, 1500, 13.915 morti. Numeri che spaventano.

Inizialmente erano lontani da noi, ma ora cominciano a diventare persone, vicine come: un conoscente, un vicino di casa, o più semplicemente un tuo parente. 

E ti tormentano. 

Cominci a capire davvero l’importanza di quelle cose che davi per scontato come una carezza, un abbraccio, un bacio, uno sguardo, o a qualsiasi cosa che rappresenti la vicinanza. 

Per la prima volta dopo tanti anni riscopriamo cos’è la paura, la paura di perdere qualcuno e di rimaner più soli con il silenzio in una stanza. 

Come diceva Rocky Balboa “nessuno colpisce più duro della vita” e la solitudine e l’isolamento che stiamo vivendo ci sta mettendo giù di morale, di provare a continuare questa situazione…ma è comunque una partita durerà ancora per molto? O finirà presto? Queste sono le domande che ci facciamo sempre più con la speranza che chi amiamo ci aspetterà e se ci sarà qualcuno al nostro al nostro fianco pronto a supportarci. 

E’ sarà bello un giorno raccontarlo. 

Forse il COVID-19 sta facendo qualcosa di positivo: ritrovare noi stessi noi che abitiamo in una vita che corre come un treno e che davamo tutto per scontato, anche l’evento di un arcobaleno. 

La socializzazione ci manca…e spero che superato questo problema riusciremo ad accettare più noi stessi e gli altri. 

Evitando di offrirci come perle gettate ai maiali, sui cosiddetti network sociali. Cambiando modalità di pensare e di vedere anziché vedere la vita da fermo dietro un buco di serratura sarà meglio vivere iniziando a muovere il sedere.

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Siamo in guerra

di Giulia Galloni

Siamo in guerra, non ce ne accorgiamo ma è così. 

Non è una guerra combattuta con armi ma con grande strategia. 

Non si vede, ma c’è; c’è sempre una guerra per qualcosa e questa è per il potere, come tutte le altre. 

A capo di questa guerra ci sono poche persone che ci comandano come burattini e ci fanno credere quello che vogliono. 

Siamo dei pupazzi in mano a un killer gigante. 

Pochi mesi fa avevamo paura che ci cadesse una bomba sulla testa, ora è caduta una bomba di ignoranza.

Dopotutto chi si accorgerebbe mai  di una guerra combattuta nella conoscenza, ma ricorda che … la storia è destinata a ripetersi. 

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con le mie parole 

di Loredana

 

“ Terra chiama Covid-19/ Covid-19 rispondi….” Sembra una supplica, quella della base terrestre, qualcosa non è andato per il verso giusto, la spedizione spaziale ha preso strade diverse, sfuggita agli strumenti radar non risponde piú agli appelli….qualcosa fa’ temere il peggio …..e purtroppo non è solo una sensazione, lo sa bene Lara, oggi è nata la sua bambina, è bellissima e sola dietro il vetro, dall’altra parte la sua mamma, sola anche lei….le regala il suo sorriso, ma con gli occhi, la curva della bocca è imprigionata nella mascherina….le promette che finirà, perché una madre deve farlo, ma ha paura….moltissima paura! A casa Mauro, il papà, piange….non lo farà dopo, passato tutto questo non lo farà, ma ora ne sente il bisogno. Sul comodino di Amelia, gli orecchini di pietre rosso intenso, aveva deciso che la sua nipotina doveva conoscerla così, elegante e allegra, con il completo beige a fiori porpora….ora è commossa, seduta sul letto, con lo sguardo sullo schermo del suo cellulare, la piccola è li che guarda questo mondo da una foto…sola in quella culletta sterile….e il completo è stirato di tutto punto, appeso ad una gruccia all’anta dell’armadio. Tutto parla di un paesaggio lunare, il Covid-19 ha fatto questo beffardo atterraggio uscendo dalle rotte spaziali, sconvolgendo i canoni, le persone sembrano fluttuare sulla terra, i visi coperti, solo gli occhi il segno distintivo di ognuno, la paura, ma anche la voglia di futuro, di normalità. 

Il cielo però regala una limpidezza dimenticata, il silenzio in strada permette di osservare le cose, perché prima coperti dall’assordante rumore del traffico, gli uccelli sembravano non cinguettare piú, anche l’erba scossa dal vento di marzo ha un suo incantevole suono. La natura dei prati e dei giardini regala emozioni sorprendenti, ma solo perché non la si ascoltava piú ….ora c’è tempo…. …..Lucia, Arnaldo, Benedetta….loro tempo non ne hanno, sono parte dell’equipe di terapia intensiva dell’ospedale cittadino, loro corrono, tremano, urlano portando i segni di settimane di fatiche, di disperati tentativi di salvare madri, sorelle, fratelli, padri, mariti….figli….. Loro pregano gli altri, di stare a casa, di permettere di uscire da questa situazione. Pregano di non ammalarsi a loro volta, non hanno il tempo di avere paura. Sergio, dalla base sulla terra non si arrende, notte e giorno, con i suoi collaboratori studia disperatamente il modo per far rientrare la navicella sfuggita al controllo, si sente responsabile, una vita intera dedicata alla ricerca di scoprire nuovi mondi….ora vorrebbe solo salvare il suo di mondi….sua figlia Lara deve poter portare a passeggio la piccola Marianna, domani, e sua moglie….oh sua moglie sta benissimo con il suo completo in cotone a fiori rossi, lo riporta indietro di dieci anni…..c’è da scommettere che Sergio riuscirà a far rientrare Covid-19……..e tutti dalle strade applaudiranno e tutti piangeranno di gioia…….non ci si vergognerà di piangere, si sarà capita l’importanza del diritto di essere vulnerabili….ci si proteggerà. 

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con le tue parole 

di Oxana Kitchotchkina 

 

In verità?

In verità vi dico che…

 

Non c’è cosa più strana della vita

e non c’è cosa più strana della morte

 

Che ridere salva tanti,

ma se l’anima sorride salvi te stesso

 

Che in tanti imparano a sopravvivere,

molti di meno – a vivere

 

Che “il tempo cura” dicono, 

e “chi vivrà vedrà”

 

Che il corpo richiede cibo e sonno

e l’anima – tutto il resto

 

… In verità?

Vivere felici è uguale a morire felici.

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L’uomo che inventò la Meraviglia

di Stefano Bartolomeo Viani

  

Sono uno dei pochi che ha avuto l’onore di conoscerlo personalmente, se di onore possiamo parlare.                        Tutti lo immaginano come un mostriciattolo basso e gobbo, brutto in volto e con la pelle raggrinzita come quella di un vecchio. Tuttavia vi posso assicurare che non è nulla del genere. Lui è semplicemente un uomo, che voi ci crediate o no. Non ha nulla in più di me o di voi. Per quanto ne sapete, potrebbe essere vostro padre, vostro fratello, oppure la persona al vostro fianco. Potrei essere perfino io, qui, adesso, ad un passo da voi.

  Lo so che effetto fa scoprirlo: è come se tutte le vostre certezze crollassero in un istante soltanto. Siamo abituati ad immaginare il male come brutto e ripugnante perché… c’è più facile odiarlo! È sempre stato più facile uccidere l’orco rispetto alla principessa, il drago rispetto alla bellissima fanciulla, ma se vi dicessi che è proprio lei la colpevole? Esatto. Niente scaglie, niente corna, niente coda e niente denti aguzzi, solamente una pelle pallida e liscia, come quella che portate voi indosso. È quella la pelle che odiate così tanto, che non vi fa dormire la notte dal tormento. Quella è la stessa pelle che ha ucciso le vostre famiglie ed avvelenato i vostri animi. È colpa sua se adesso schiumate di rabbia e di vendetta, se perfino di un omicidio vi macchiereste per pareggiare i conti. Eppure, se è proprio la vendetta che cercate, io non sono l’uomo che fa per voi.

  Non cercate di mettermi alla prova, non fatemi alcuna domanda, poiché sarebbe completamente inutile. Non vi dirò dove si trova o come si chiama. Non vi racconterò tutto quello che ho dovuto passare per trovarlo, né tutto quello che ho sacrificato per trovarmi lì in quel preciso istante. Solamente una cosa sono disposto a raccontarvi, l’unica cosa che varrà mai la pena di essere raccontata: il nostro incontro.

  Questo incontro non avverrà in nessun luogo, o in nessun tempo. Questo incontro non avrà alcun spettatore. Questo incontro sarà solamente ciò che io vi racconterò, e tutto quello di cui vi racconterò sono due uomini, che si parlano difronte al mondo che piange. Il primo uomo sono io, in cerca di risposte e di vendetta. Il secondo uomo è lui: il dotto, il genio, lo scienziato… nonché il responsabile di questa grande epidemia.

  Non scherzavo quando vi ho detto che parlammo di fronte al mondo in lacrime. Quando l’ho incontrato, lui stava di fronte ad una grande vetrata, appoggiato con entrambe le mani e la fronte. Da quel palazzo, io credo, si poteva vedere il mondo intero: tutta la desolazione che il virus aveva portato. Lui la osservava sognante, soddisfatto del proprio operato, con gli occhi sgranati ed un sorrisetto beffardo puntato sul volto. Sembrava quasi sul punto di mangiarsele, quelle strade deserte e quei palazzi dalla luce spenta. Era talmente preso da quel mondo devastato che non mi sentì neppure arrivare. Dovetti chiamarlo a gran voce perché si accorgesse che, in quella stanza buia, qualche metro dietro di lui, stava un uomo: un essere umano, come quelli che proprio in quell’istante continuava a sterminare senza mostrare la minima compassione.

 “Sei felice di quello che hai fatto?” Gli chiesi io schiumando rabbia.

  Lui non si mosse di un millimetro e continuò a fissare il proprio mondo. Forse non mi aveva nemmeno sentito.

 “Rispondimi!” Gridai sbattendo i piedi.

  Solamente a quel punto parve sobbalzare un poco, come preso da un improvviso spavento. Credo che quello fu il momento in cui si accorse di non essere solo, di non essere più al sicuro dentro al suo palazzo di vetro. Nonostante tutto non si voltò affatto, né in quel momento, né per tutta la nostra conversazione. Sono sicuro però che mi stesse tenendo d’occhio dal riflesso sul vetro, pronto a scattare in caso di pericolo.

 “Vieni più vicino.” Mi disse sussurrando. “Guarda anche tu.”

  Non avevo alcuna intenzione di avvicinarmi a quell’uomo. Per quanto ne sapevo, colui che aveva creato il Coronavirus e lo aveva sparso nel mondo era la persona più infetta che esistesse. Così gli girai attorno e mi avvicinai leggermente al vetro, sempre stando qualche passo indietro per non perderlo di vista.

 “Non c’è nulla per le strade.” Dissi in una smorfia di rabbia. “Le persone che non sono morte sono chiuse in casa e molte di loro iniziano a soffrire la fame. Ti sembra un bello spettacolo?”

  Lui rise leggermente. Il suo camice bianco gli avvolgeva il corpo completamente, fino alle caviglie, donandogli una sorta di fredda eleganza. Quello che avevo davanti era il classico scienziato pazzo, quello che avevo sempre visto al cinema, nei film dell’orrore. Quella fu l’unica volta che ne vidi uno dal vivo.

 “No…” Sbuffò lui. “Questo non è un bello spettacolo, non lo è per niente. Io non sono mai stato un uomo facile alle lacrime, ma perfino a me fa un certo effetto. Tutto questa desolazione mi appesantisce il cuore.”

  In quel momento non ci vedevo più dalla rabbia. Se non avessi avuto così tanta paura di lui, gli sarei volato addosso per strangolarlo con le mie mani. Come poteva parlare in quel modo di una tragedia del genere? Lo diceva con fare annoiato, come un uomo al quale è appena crollato un castello di carte, e sa che dovrà ricominciare da capo. 

  Uffa… Dicevano i suoi occhi.

 “MA ALLORA PERCHÉ LO HAI FATTO?!” Gridai con tutto il fiato che avevo in gola. “Se anche a te fa male vedere tutto questo, perché lo hai causato? Perché hai distrutto tutte quelle vite innocenti?”

  In quel momento parevo proprio patetico. Il mio viso era completamente rosso di rabbia e c’era una vena sul mio collo che non voleva proprio smettere di pulsare. Respiravo affannosamente con i pugni chiusi nelle mani, e le unghie piantate nei palmi.

  Lui invece sembrava a proprio agio, come se quello per lui non fosse che un gioco. Scoppiò a ridere quando ebbi smesso di urlare, senza nemmeno bisogno di guardarmi in faccia. Bastarono le mie parole a farlo ridere.

 “Tu vedi questo momento nel modo sbagliato.” Disse senza smettere di sorridere. “Tu lo vedi come la peste nera che decima l’Europa, come le bombe che distruggono Guernica, come le torri che cadono a New York. Guardi fuori da questa finestra e vedi l’ennesima tragedia che verrà ricordata dall’umanità. Ma se la vedessi come la vedo io, le tue lacrime diventerebbero lacrime di gioia.”

  Smisi di guardarlo un istante per tornare ad affacciarmi fuori dalla finestra. Ero in qualche modo convinto che il mondo fosse cambiato durante il suo discorso, che fosse diventato bello come lo vedeva lui. Tuttavia lui non lo stava più guardando. Adesso aveva chiuso gli occhi e sorrideva, avvolto da un piacere intenso.

 “Vedilo come l’attimo prima di un bacio.” Sussurrò infine. “Come l’istante in cui i due volti sono vicinissimi, quasi si sfiorano in mezzo al buio dei loro occhi chiusi. Quell’istante non è nulla, è solamente buio e tensione, non c’è motivo per cui debba significare qualcosa, eppure è il momento più bello. È il momento più bello perché sai cosa verrà dopo, sai quanta gioia proverai nel baciare quella ragazza e quasi vorresti rimanere lì sospeso per sempre, ad attendere un piacere che sai che arriverà. Non è quello il momento più bello di un bacio?”

  Rimasi per un attimo a bocca aperta.

 “Suppongo di sì…” Sospirai deglutendo.

  In quel momento pensai a tutti i baci che avevo dato, da quelli rubati nel cortile della scuola, all’ultimo che avevo dato a mia moglie prima che se ne andasse. Quel virus maledetto si era portato via anche lei, la persona più cara che avevo al mondo. Adesso i miei due figli erano l’unica ragione che mi era rimasta per vivere, l’unica per cui non mi ero ancora avvicinato a quel pazzo per strangolarlo. Ricordare quei momenti passati però dovetti ammettere che era di sollievo. Tutti i baci che avevo dato a mia moglie continuavano a scorrermi nella mente, come un vecchio album di fotografie. Mi facevano sorridere anche in quel momento tragico.

 “Un tempo avevo anche io chi baciare…” Risi io. “Era una donna bellissima, devi credermi: sempre elegante, in ogni occasione. Metteva il pigiama solamente qualche secondo prima di sdraiarsi nel letto. Il resto del tempo vestiva abiti bellissimi, raffinati. Non lo faceva per vanità o per orgoglio, lo faceva semplicemente perché le piaceva essere bella, ma la verità era che… non avrebbe potuto esserlo di più.”

  Lui aprì gli occhi per ridere. Gli piaceva vedermi felice, si vedeva dal suo sguardo. Non sembrava una persona cattiva, non lo era mai sembrato.

 “In effetti hai ragione.” Continuai io, senza perdere il mio sorriso. “Quando ripenso ai baci che ci siamo dati, penso solamente all’attimo prima che le labbra si sfiorino. Il resto non riesco proprio a ricordarlo.”

  Quasi piangeva quello scienziato pazzo a sentirmi parlare di mia moglie, ed il peggio doveva ancora venire.

 “Chi è questa donna? Sua moglie?” Chiese con un bel sorriso e gli occhi tanto umidi da riflettere la luce del sole.

 “Lo era.” Dissi tornando serio. “Prima che il tuo virus me la portasse via.”

  A quel punto scoppiò veramente in lacrime. Ci volle meno di un secondo perché il suo sorriso si tramutasse in un’orrida smorfia di dolore. Sembrò subito vergognarsi dei suoi singhiozzi, come se potessi giudicarlo per la sua fragilità e non per tutte le vite che aveva spezzato. Appoggiò la fronte contro il vetro ed iniziò a colpirlo con il pugno destro, tanto forte che iniziai a temere che il vetro potesse spezzarsi. Lo colpiva e lo colpiva, mentre i suoi strazi di dolore venivano distorti dal pianto. Era una scena forte e patetica allo stesso tempo: il carnefice piangeva per la morte del giustiziato. Quelle grida disperate mi tolsero ogni dubbio sulla sua sincerità. Nessuno avrebbe potuto fingere così bene, neppure il più bravo degli attori. Adesso perfino una lunga candela di muco pendeva dal suo naso e lui non trovava neppure un momento per toglierla, continuava a colpire il vetro con le nocche. Continuò a farlo fino a quando queste non si misero a sanguinare così copiosamente da rendergli impossibile usarle per colpire qualcosa. Solamente a quel punto iniziò ad usare la testa. Appoggiò le mani al vetro ed iniziò a sbatterci contro la fronte, con tutta la forza che aveva in corpo. 

  Io lo lasciai fare. Non mi venne in mente neppure un secondo di fermarlo. Ero sicuro che meritasse ben più di tutto quel dolore, che neppure un altro miliardo di testate avrebbe potuto ripagare il conto, ma ero comunque felice di assistere alla sua punizione. Un quesito, però, continuava a rimbalzarmi nella testa, così forte da farmi dubitare perfino dell’odio per quell’uomo. Come poteva una persona così fragile, così sensibile al dolore altrui, aver trovato il coraggio di liberare un virus del genere nell’aria? Nei suoi occhi immersi dalle lacrime si poteva vedere tutto il dolore che provava per me, per quello che mi aveva fatto. Sono sicuro che, se avesse potuto, avrebbe riportato in vita mia moglie, lì in quell’istante. Ma perfino i suoi poteri non andavano oltre ad un certo limite.

  Smise di sbattere la testa gradualmente, senza fretta. Riuscivo a percepire il suo desiderio di colpirsi ancora, di farsi più male, ma i suoi muscoli non ce la facevano più. Colpo dopo colpo, la sua fronte sanguinate atterrava sul vetro sempre più piano, fino a fermarsi lì, appoggiata allo specchio del mondo che aveva creato. Piangeva piano adesso, attendendo che le sue carni riprendessero la forza necessaria per tornare a colpirsi. Sono sicuro che, se non lo avessi interrotto, non avrebbe mai più smesso di piangere. 

“Perché lo hai fatto?” Chiesi quasi sussurrando. “Se adesso piangi per mia moglie, perché diavolo hai fatto del male a tutta quella gente? Quante vedove credi che abbia fatto il tuo virus? Quanti orfani? Vorresti piangere per ognuno di loro?”

L’uomo smise di singhiozzare di colpo e chiuse gli occhi, tentando di respirare lentamente, con più calma. Le prima volte i suoi respiri risultarono affannosi, poi a poco a poco tornò alla normalità. In quel momento pareva un guerriero sfinito dopo la battaglia. Non si appoggiava più al muro con rabbia, ora si sorreggeva. Se non vi fosse stato quel vetro sarebbe caduto a terra.

“Non sono un uomo cattivo…” Sussurrò con una voce asciutta.

“Ah, davvero? Perché quello che hai fatto ha proprio l’aria di essere una cosa cattiva. Sai, uccidere migliaia di persone con un virus letale non è proprio una buona azione!”

Mi vergogno di quello che feci dopo, ma non seppi resistere. Lo vidi lì indifeso, vulnerabile, con il collo infilato dentro le spalle ed il volto girato per non farsi vedere. Aveva paura di me. Si vergognava perfino del suo volto, ed io non riuscii a non approfittarne. Guardai il mondo sotto di me, tutto il male che quell’uomo aveva fatto, e lo odiai profondamente. Così iniziai ad infierire.

“Guarda! Guarda cosa hai fatto!” Gridai indicando il vetro. “Hai reso questo mondo un posto orribile, ed ora hai perfino il coraggio di considerarti una persona buona! Voglio che tu capisca ciò che hai fatto! Voglio che tu concluda la tua miserabile vita sapendo di essere un mostro, un demonio! Tu hai ucciso migliaia di vite innocenti! Tu hai tolto gli uomini delle loro vite, della loro libertà! Tu…”

 “IO VI HO SALVATI!!!” Gridò voltandosi tutto di un pezzo.

Lo vidi in volto solo per un istante, poi tornò a voltarsi verso la finestra. Francamente non ricordo che faccia avesse, né penso di averlo mai saputo. Ero troppo distratto dalle sue parole.

“Credevate di essere felici, prima? Credevate che fosse una bella vita la vostra? Pensi davvero che io abbia rovinato questo mondo? No, no, no…” L’uomo tornò a ridacchiare come prima. “Il vostro mondo non poteva diventare peggio di quanto lo fosse senza il mio virus.”

 “Sei un pazzo! Un pazzo ed un assassino.” Urlai io. “Tu non hai combinato nulla! Tutte le vite che hai spezzato renderanno il mondo un posto migliore secondo te?!”

 “Lo hanno già fatto.” Sorrise lui.

  Nell’udire il suo tono di voce: come era tornato calmo e pacato, avvertii un brivido lungo la schiena. Quelle non erano le grida di un pazzo o di un bugiardo, che urla per convincere il suo pubblico. Quello era il sussurro di un profeta: un uomo che è ben conscio di avere ragione. Poco gli importa che qualcuno gli presti attenzione. Tutto ciò di cui ha bisogno è sapere la verità per se stesso, perché possa fare del suo meglio per aiutare il mondo attorno a lui.

 “Cosa hai fatto?” Chiesi sussurrando anche io. “In che modo ci hai aiutati.”

  Lui ridacchiò un poco, come se la mia domanda non facesse altro che avvalorare la sua tesi. 

  Nemmeno adesso lo hai capito? Diceva con tutto il suo corpo.

 “Credi in dio?” Domandò lui tornando serio.

 “Grazie a te non più.” Sbuffai deciso.

  La mia risposta lo fece ridere ancora, ma questa volta fu solo un attimo. Giusto il tempo di due colpi di tosse.

 “Di che cosa lo ringrazieresti, se lo avessi davanti agli occhi?”

Presi il mio tempo per riflettere. Quella era una di quelle domande facili, di cui tutti credono di conoscere la risposta, ma alle quali nessuno risponde mai.

 “Lo ringrazierei per i miei figli, perché sono ancora al sicuro… e lo maledirei per ciò che ha fatto a mia moglie.”

 “Dio non centra con tua moglie. Sono stato io.”

Vidi nei suoi occhi il desiderio di rimanere fermo, impassibile, ma le lacrime uscirono al solo nominare mia moglie. L’odio che provavo per quell’uomo mi stava lentamente scivolando via dall’anima.

“Per i tuoi occhi invece? Per quelli non lo ringrazi?” Continuò lui. “E che mi dici della famiglia in cui sei nato, dell’amore dei tuoi genitori? Credi che quelli ti siano dovuti? Sono sicuro che se ti cavassi gli occhi dalle orbite e te li restituissi tra vent’anni, tu mi ringrazieresti di vedere anche questo schifo di mondo. 

Ma lasciamo stare te… parliamo del mondo in cui sei nato. Tutti i colori che hai intorno, per esempio: dopo aver visto il mondo in bianco e nero mi pregeresti in ginocchio di farli tornare. La libertà, invece! Per quella non ringrazi? Di quanti anni avresti bisogno legato ad un aratro per farti sentire riconoscente?

L’uomo si è dimenticato tutto ciò che di bello gli sta attorno. Vi dicevate tutti depressi, stanchi di quel mondo schifoso, ma eravate voi a renderlo così. Guardavate solo il male, solamente quelle tragiche pagliuzze in un mare di bellezza.

Tu ne sei la prova. Sei l’uomo che voglio guarire. Guarda: ti ho dato la possibilità di ringraziare Dio per ogni cosa ti venisse in mente, e tu non hai nemmeno ringraziato per l’amore di tua moglie. Se non te l’avessi tolta, se non ti avessi privato di quell’amore, ti saresti perfino scordato di maledirlo.

Non mi stupisce che nessuno ringrazi mai per il solo e semplice fatto di vivere. A vedere la vita come la vedete voi, credo che neppure io ringrazierei. Ma adesso sarete grati! Sarete grati di vivere e di respirare! Quando uscirete dalle vostre case vi ricorderete quanto era bello camminare al sole. Pensa a tutti gli amanti che si riabbracceranno, dopo che si erano dimenticati quanto fosse meraviglioso! Pensa a tutte le persone che urleranno Ti Amo! perchè si saranno ricordate che la vita ha un limite! Pensa! Pensa all’istante prima del bacio, a quanto era bello sfiorare con le labbra la tua donna! Non ringrazieresti per quello?”

Quando smise di parlare, mi accorsi che avevo iniziato a piangere. Ero talmente preso dalle sue parole, dall’enfasi che ci metteva nel dirle, da non essermi accorto di nulla. Adesso il mio viso era rosso e gonfio, rigato da delle lacrime azzurre. Lo potevo vedere riflesso difronte a me, davanti a quel mondo in ginocchio.

 “Qual era la risposta giusta?” Chiesi con un filo di voce.

  Lui tornò a sorridere.

 “Se si dovesse ringraziare per tutto ciò che c’è di bello nel mondo, credo che non basterebbe una vita intera a farlo.” L’uomo si appoggiò al vetro con la testa, digrignando i denti dal dolore. “Ma io non voglio questo da voi. Non voglio preghiere, non voglio ringraziamenti, non voglio che sprechiate la vostra vita dietro a qualcosa che potrebbe non esistere. Voglio solamente che vi accorgiate di quanto la vita sia meravigliosa. Voglio che sappiate che, anche nei momenti più duri, c’è così tanto amore e bellezza nell’aria da far sorridere il mondo intero. Questo voglio da voi. Che sorridiate.”

Ed in quel momento, non ci crederete, sorridevo anche io. Mia moglie era ancora morta ed il virus continuava a sterminare gente, ma non potevo fare a meno di sorridere. Per quanto devastato, il mondo difronte a me rimaneva un posto meraviglioso, e me ne accorgevo solamente adesso.

“Mi ci è voluta molta forza di volontà per fare questo al mondo.” Disse lui. “Più di una volta sono stato sul punto di tirarmi indietro, di mollare tutto. Ma ora, vedendo il tuo sorriso. Mi rendo conto che ce l’ho fatta, il mio lavoro ha dato i suoi frutti. Può bastare. Farò in modo che l’epidemia cessi domani e lascerò che le due labbra si tocchino, nel bacio più meraviglioso che si sia mai visto.”

L’uomo era tornato a guardare il mondo, sognante come lo avevo trovato all’ingresso. Ma solo allora capivo cosa vedesse da quella finestra. Vedeva un mondo migliore, un mondo fatto di gioia, lo stesso mondo in cui avevamo vissuto fino a qualche mese prima, ma in qualche modo completamente diverso.

 “Chi sei?” Gli chiesi quasi sussurrando. “Non sei un uomo, vero?”

  Lui mi fissò a lungo dal riflesso del suo vetro, come se fosse indeciso sulla risposta.

 “Io sono ciò di cui avevate bisogno.” Rispose sorridendo.

Dopo la sua affermazione, decisi di andarmene, di lasciare quel martire di fronte alla sua opera più meravigliosa. Forse infondo ancora la odiavo un po’, per mia moglie e per tutte le vita che aveva strappato. Ancora non sono sicuro che abbia fatto la cosa giusta, che tutti quei sacrifici ne siano valsi la pensa, ma ho smesso di preoccuparmene. Ora, solamente, mi godo la vita, meravigliosa come è sempre stata.

© È vietata la riproduzione integrale del testo o di parte di esso, se non all’autore e ad Etoile Centro Teatrale Europeo e Melpomene

 

 

Parole per aria

di Marta Cavalliere

 

In attesa,appesa a una speranza sospesa

A mezz’aria: seme portato dal vento

Resto in silenzio e guardo ciò che sta accadendo /

 

Rintanata osservo da lontano,

La strana vita dell’umano.

Un mondo ribaltato,

Un mare inquinato,

Un polmone della terra bruciato,

L’uomo dalla paura stanato.

Fiocco di neve a marzo,

Vedo un cielo rosa quarzo

Resto chiusa nella mia dimora

E che tutto passi non vedo l’ora

Si rincorrono i giorni sul calendario

Creatività finalmente senza orario

La mia arte nelle mie mani

visione del mondo nella mia mente

Che la speranza ci faccia restare umani

Che la vita a volte ci sorprende

Un passo. Un sospiro. Un abbraccio

Lontano si,ma non di tanto.

Ora è tempo di aspettare

È anche questa una forma di amore.

© È vietata la riproduzione integrale del testo o di parte di esso, se non all’autore e ad Etoile Centro Teatrale Europeo e Melpomene

CON LE TUE PAROLE

di Lorena

“Come ti senti?”

… già… come mi sento? … sensazioni ed emozioni si accalcano formando un groviglio, se immagino inside-out, vedo i colori accapigliarsi ma nessuno si definisce… per la prima volta penso che LE EMOZIONI sono al femminile, mentre IL PENSIERO è al maschile. 

Io sono a casa in smart working, mio marito al lavoro.

Smart working significa che ho riarredato le stanze e la vita per poter lavorare con qualità, nuovi confini sono le porte scorrevoli e se vengono varcati lo diventano le mie braccia e le mie mani, si protendono verso i miei figli, non per abbracciarli, ma per stopparli e rendergli visibile il confine del ‘mio studio’, la mia identità professionale che di smart in realtà ora ha più nulla. 

Sono passati due mesi di questo tempo sospeso che è un tempo vissuto, non tornerà! Il tempo si muove creando tranelli fra spazi vuoti e spazi compressi, sono sempre io, molto più in contatto con me stessa, sono un condensato di me, fra spazi infiniti e tempo che manca, mancano le parole, a volte mancano gli spazi… mi manca il mare (la mer).

Quanti sono i genitori di noi di mezz’età già passata -stritolati fra figli adolescenti, lavoro e genitori anziani- che se ne sono andati prima del tempo, inaspettatamente, ‘soli’… si nasce sempre con qualcuno ma spesso si muore soli, come per non disturbare. 

In questi due mesi abbiamo visto dalle nostre finestre la neve e riempirsi i campi di margherite… ci siamo incontrati occhi negli occhi ad una distanza di sicurezza, quella di cui tanto parlo nel mio lavoro: ‘si è chiesta qual’è la sua di-stanza di sicurezza?’ 

Anche i timidi si sono dovuti guardare negli occhi perché il resto è coperto, senza far più discutere nessuno, non è un velo, è una mascherina che ci dice che la nostra cultura dovrà cambiare, che non ci toccheremo più come facevamo prima… quante volte ho detto: ‘si capisce subito da come stringe la mano!’ e forse non sarà più una seduzione fare l’occhiolino. 

Sapremo essere autentici nel chinare il capo con le mani che si congiungo incontrandosi sul petto per salutare l’altro da noi?

Come mi sento? …non voglio tornare ai ritmi di prima ‘non è come mi sento’, …questa è anche un’opportunità ‘non è come mi sento’, …posso stare finalmente in un ascolto calmo dei miei figli ‘non è come mi sento’.

E mi accorgo che il come mi sento lo vedevo nello sguardo della mia collega, il suo sorriso complice mi diceva ‘come mi sento’, il poter abbracciare chi volevo consolare era ‘come mi sento’, decidere di prendere l’auto e andare al mare era ‘come mi sento’, il contatto con mio marito era il ‘come mi sento’.

Accordo il mio sentire con lo stare nei legami, stare con il mondo a cui scelgo di appartenere. 

Mi sento stanca, a volte nervosa… mi sento triste, a volte sola… mi sento privilegiata, chi amo e accanto a me… mi sento amata… sento i battiti regolarsi mentre accarezzo i miei cani, sento l’ossigeno che entra nelle mie narici, l’aria mi riempie i polmoni, il ventre si gonfia, sento gli angoli della bocca che puntano verso l’esterno e arriva un sorriso… MI SENTO e forse lo devo ‘solo’ a questo essermi dovuta fermare, reinventare e ritrovare… SENTO, PENSO, INTEGRO E QUINDI SONO.

“Mi sento abbastanza bene e tu? come ti senti tu?”

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